Troppo giovani per la pensione

Secondo un recente rapporto Ocse, l'età alla quale gli italiani escono effettivamente dal mondo del lavoro sarebbe troppo bassa per garantire al sistema pensionistico stabilità di lungo periodo: l'organizzazione parigina compie però anche alcuni importanti errori di valutazione, soprattutto a proposito delle possibili "contromisure" da adottare 

Alberto Brambilla e Michaela Camilleri

Il titolo, volutamente provocatorio, riprende l’ennesima critica mossa dall’Ocse al nostro Paese. Nell’ultima edizione del “Pensions at a Glance 2019” si legge che, pur avendo un’età legale per l’accesso alla pensione di vecchiaia pari a 67 anni, in Italia l'età effettiva di uscita dal mondo del lavoro si ferma a 63,3 anni per gli uomini e 61,5 per le donne. Troppo pochi, secondo l’organizzazione parigina, per garantire la sostenibilità del nostro sistema pensionistico. Sulla base di questi dati, il suggerimento è quello di “aumentare l'età effettiva di pensionamento”, limitando le forme di prepensionamento e applicando l’adeguamento alla speranza di vita anche all’anzianità contributiva (meccanismo previsto dalla riforma Monti-Fornero e successivamente bloccato fino al 2026 a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 mesi per le donne).

È senz’altro vero che l’Italia, con i suoi 67 anni di età legale richiesta per il pensionamento di vecchiaia, si posiziona ai primi posti della classifica dei Paesi appartenenti all’area Ocse. Così come è altrettanto vero che l’età effettiva di pensionamento è piuttosto bassa, ma per effetto delle molteplici opzioni di uscita anticipata introdotte in questi ultimi anni che hanno portato ad avere una vera e propria “giungla pensionistica” con regole diverse per ogni categoria: a partire proprio dalle otto salvaguardie, la prima delle quali sei mesi dopo il varo della riforma Monti-Fornero, per poi giungere, non potendo fare la nona salvaguardia, all’anticipo pensionistico (APE) nelle sue diverse declinazioni, al blocco dell’anzianità contributiva per i lavoratori precoci, all’opzione donna e all’attuale Quota 100. Tutte queste eccezioni hanno comportato l’uscita secondo le regole pre-esistenti alla Fornero per oltre 350mila lavoratori in soli 7 anni, a una media di 50mila l’anno. Per Quota 100 e opzioni collaterali (opzione donna, precoci, APE sociale), nel 2019 lasceranno anticipatamente il lavoro altri 193.000 lavoratori, con un anticipo medio sui 67 anni di età di poco più di 2 anni.  

Ma perché si sono rese necessarie queste misure? La tanto dibattuta Quota 100, ad esempio, malgrado non sia una risposta completa né sotto il profilo tecnico né dal punto di vista politico, ha comunque evidenziato la necessità di risolvere un problema vero, ossia l’eccessiva rigidità introdotta dalla Monti-Fornero. E qui sta il punto: quello che l’Ocse dovrebbe aver capito - si spera - sulla base della sua esperienza internazionale è che se si pone l’asticella troppo alta (67 anni) o se si pretende di far lavorare oltre i 43 anni, i risultati sono questi. Un’enorme spinta sindacale e sociale che la politica non riesce ad arginare.

Sono state più volte evidenziate le criticità di Quota 100: si tratta di una misura sperimentale di durata limitata nel tempo (2019-2021), che non tiene peraltro conto delle specifiche situazioni dei lavoratori, concedendo l’uscita anticipata a tutti coloro che soddisfano il requisito anagrafico e contributivo (62 anni d’età e 38 di contributi), compresi quanti – in assenza di particolari situazioni fisiche e familiari o estranei a lavori particolarmente gravosi e usuranti – avrebbero di fatto potuto continuare a lavorare. Fortunatamente per i conti pubblici italiani, i beneficiari non saranno tra i 600mila e i 900mila, così come inizialmente stimato, e i costi molto probabilmente scenderanno dai 48,5 miliardi previsti nel decreto a meno 27 miliardi tra il 2019 e il 2027. Il grosso dei lavoratori con il sistema retributivo o misto bloccato dalla Fornero, che poteva approfittare di Quota 100 senza rimetterci molto, è infatti già uscito; a partire dal prossimo anno, invece, la maggior parte di coloro che potrebbe accedervi avrebbe almeno il 60-65% dell’assegno pensionistico calcolato con il metodo contributivo, rischiando di perdere in media il 10% per l’intera durata della pensione. E, infatti, gli anni medi di anticipo rispetto ai requisiti di legge ci dicono che siamo più vicini a Quota 103 che a Quota 100.

Tabella 1 - Pensioni liquidate con Quota 100: distribuzione percentuale dei pensionati per metodo di calcolo della pensione

Distribuzione percentuale dei pensionati per metodo di calcolo della pensione per anno di decorrenza e delle pensioni liquidate con Quota 100

                    Fonte: elaborazioni a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

Come si diceva, dunque, tutte queste forme di pensionamento anticipato hanno evidenziato le problematiche di una riforma Monti-Fornero focalizzatasi solo sulla riduzione della spesa pensionistica senza neppure accorgersi (o, forse, sarebbe stato troppo impopolare?) che è la spesa assistenziale quella che sta aumentando pericolosamente. E lungo questa via la riforma si è rivelata fin troppo rigida soprattutto per i più giovani, i cosiddetti contributivi puri: per loro, l’accesso alla pensione è previsto a 64 anni solo a patto di aver maturato un assegno pari a 2,8 il minimo (1.300 euro al mese), una soglia che - considerate le retribuzioni attuali - rischia appunto di escludere una grande fetta di giovani lavoratori, ai quali resterebbe come unica alternativa il pensionamento di vecchiaia a 71 anni (la soglia si abbassa a 1,5 volte il trattamento minimo al raggiungimento dei 67 anni di età).

L’altro grande errore della riforma del 2011 è stato proprio quello che oggi l’Ocse ci suggerisce di portare avanti: legare non solo il requisito di età anagrafica, ma anche quello dell’anzianità contributiva all’andamento della speranza di vita. Ma nessun altro Paese sviluppato si immaginerebbe di arrivare a oltre 45 anni di contributi necessari per accedere alla pensione come rischia di dover fare l'Italia nel 2040 se nulla cambia. Al contrario, la pensione anticipata andrebbe resa stabile e soprattutto svincolata dall’aspettativa di vita e per i contributivi puri (quelli che hanno iniziato a lavorare nel 1996) dovrebbero valere le stesse regole di tutti gli altri lavoratori, integrazione al minimo compresaSarebbe poi utile, sul modello della Dini, prevedere per le donne madri un anticipo dei requisiti pari a 8 mesi per ogni figlio con un massimo di 24 mesi, mentre per i precoci ogni anno di lavoro fatto prima dei 19 anni dovrebbe valere 1,25 anni (ad esempio, con 4 anni di lavoro, dai 16 ai 19 anni, si ottiene l’anticipo di 1 anno). 

Insomma, una flessibilità in uscita è assolutamente necessaria a maggior ragione considerando che, a partire dal 2020, il 73% dei lavoratori - che aumenteranno al 95% nel 2022 - avrà gran parte della pensione calcolata con il metodo contributivo e, quindi,  non costerà un euro di più alla collettività (solo il costo dell’anticipo che si ammortizzerà nel corso dei successivi 10 anni). Del resto, non a caso, tutti i sistemi pensionistici che applicano il metodo di calcolo contributivo hanno la flessibilità in uscita. Ma, soprattutto, occorre concludere il ciclo delle riforme dando certezza ai cittadini con regole semplici e valide sia per tutti. Alla politica la risposta.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

Michaela Camilleri, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

16/12/2019 

 

 
 
 

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