Invecchiamento e non autosufficienza alla prova della sostenibilità

Gli strumenti al momento previsti per gestire l'invecchiamento della popolazione sono adeguati ai trend demografici in atto e, soprattutto, si riveleranno sostenibili sul lungo periodo? Alcune riflessioni sulle possibili ricadute economiche e sociali del fenomeno sul nostro sistema di welfare

Michaela Camilleri

Sostenibilità. È questo uno dei temi più dibattuti del momento, se non addirittura il tema del momento. Il concetto di sostenibilità può avere molteplici declinazioni: dalla conservazione dell’ambiente alla lotta al cambiamento climatico, dalla riduzione delle disuguaglianze economiche e sociali alla garanzia di una buona salute a tutte le età. Ne sono un parametro di riferimento indiscusso i 17 obiettivi di sostenibilità definiti nel 2015 dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, sulla base dei quali ogni Paese misura il proprio posizionamento lungo la via dello sviluppo sostenibile. Anche “assicurare la salute e il benessere per tutti e a tutte le età” rientra nei goals adottati dalla comunità internazionale. Come testimonia Istat nel Rapporto SDGs 2019 (Sustainable Development Goals) alcuni dei target di questo goal si riferiscono ai rischi e alle condizioni sanitarie di popolazioni nelle prime fasi della transizione sanitaria, dove la mortalità è ancora molto alta. Nel caso dell’Italia, invece, le aree più rilevanti sono legate all’accesso alla prevenzione e al contrasto agli stili di vita poco corretti (consumo di alcol e tabacco), alla mortalità per incidenti stradali e soprattutto all’invecchiamento della popolazione. In particolare, in quest’ultimo caso si fa riferimento alla diffusione delle patologie croniche e alla gestione della non autosufficienza.

Lo spunto è allora utile per riflettere sulla sostenibilità economica e sociale del fenomeno dell’invecchiamento in Italia. Gli strumenti attualmente previsti per gestire questo trend sono adeguati e sostenibili in futuro?

L’invecchiamento della popolazione è una tendenza di lungo periodo iniziata alcuni decenni fa in Europa e destinata ad accentuarsi nei prossimi anni, le cui dimensioni sono particolarmente rilevanti in Italia: nel nostro Paese gli over 65 rappresentano già oggi il 22,3% della popolazione, quota che ci posiziona al primo posto della classifica europea (+3 punti percentuali rispetto alla media). Il primato si mantiene anche guardando all’incidenza degli over 80, pari al 7% della popolazione totale rispetto al 5,6% della media europea.

Il peso della popolazione anziana è, oltretutto, destinato a crescere ancora: le ultime previsioni dell’Istat indicano che nei prossimi 25-30 anni si registrerà un picco di invecchiamento e la quota di persone ultrasessantacinquenni raggiungerà il 34%. Quella che un tempo era la piramide dell’età assomiglierà sempre più a un cubo a causa del continuo aumento della speranza di vita (si parla di invecchiamento al vertice perché l’incremento della popolazione in età anziana allarga il vertice della piramide) e della riduzione del tasso di fertilità (invecchiamento alla base, si restringe la base della piramide).

Come ormai largamente riconosciuto il nostro Paese è tra i più longevi d’Europa e del mondo. Secondo gli ultimi dati Eurostat disponibili relativi al 2017, l’Italia occupa i vertici delle classifiche sia per speranza di vita alla nascita (80,8 per gli uomini e 85,2 per le donne) sia per speranza di vita residua a 65 anni, che si conferma più elevata di un anno per entrambi i generi rispetto alla media UE (19,2 anni per gli uomini e 22,4 per le donne).

Viviamo dunque più a lungo, ma non meglio. Guardando alla speranza di vita in buona salute infatti la situazione per il nostro Paese è meno favorevole al confronto con gli altri Paesi europei. L’Italia scende dal podio e si allinea alla media europea per speranza di vita a 65 anni senza limitazioni funzionali: nel caso degli uomini, pur mantenendosi sopra la media europea, perde posizioni, collocandosi ben al di sotto del Paese europeo più virtuoso (la Svezia, con 15,1 anni, rispetto ai 10,4 dell’Italia); nel caso delle donne, invece, scende al dodicesimo posto della classifica (con 10,1 anni, valore corrispondente alla media).

Fig. 1 – Speranza di vita a 65 anni e speranza di vita senza limitazioni nelle attività a 65 anni
dati al 2016, ultimo anno disponibile 

Fonte: elaborazioni Istat su dati Eurostat

La sfida dell’invecchiamento è allora legata a quella della non autosufficienza, spesso inevitabile conseguenza dell’allungamento dell’aspettativa di vita media. Questa sfida sarà sostenibile in termini di ricadute economiche e sociali sul nostro sistema di welfare?

L’ulteriore aumento della longevità previsto da Istat (+5 anni per entrambi i generi, giungendo a 86,1 anni per gli uomini e 90,2 anni per le donne entro il 2065) produrrà un leggero incremento della spesa pensionistica, la cui sostenibilità può dirsi assicurata in questo caso specifico dal fatto che il requisito anagrafico di accesso alla pensione è agganciato alla speranza di vita. Per contro, aumenterà la spesa sanitaria e soprattutto quella per la non autosufficienza. Già oggi la spesa pubblica destinata alla Long Term Care (che include oltre alla componente sanitaria, le indennità di accompagnamento e gli interventi socio-assistenziali erogati a livello locale) vale circa 29,3 miliardi di euro, pari all’1,7% del PIL del 2017, e secondo le ultime proiezioni della Ragioneria Generale dello Stato aumenterà fino al 2,5% del PIL entro il 2070.

A questi vanno aggiunti altri 10,6 spesi dalle famiglie, prevalentemente per assistenza domiciliare e residenziale (dato che, come spiegato nel Sesto Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale Italiano, potrebbe essere molto sottostimato a causa della forte incidenza di lavoro irregolare nell’ambito del badantato).

Il problema della sostenibilità dell’attuale modello di gestione della non autosufficienza risiede dal lato pubblico nell’eccessivo sbilanciamento a favore dell’erogazione di prestazioni monetarie quando, mai come in questo caso, si dovrebbe piuttosto ragionare sulla “presa in carico” del soggetto; dal lato privato, invece, nel processo di atomizzazione delle famiglie (mononucleari e coppie senza figli) che, senza un adeguato sostegno da parte del sistema di welfare pubblico, difficilmente riusciranno a portare avanti come oggi il loro prezioso ruolo di caregivers.

Come ben evidenziato nel Quaderno di approfondimento 2018 “Le sfide della non autosufficienza”, alla luce delle pressioni derivanti dai cambiamenti demografici in atto, appare ormai urgente la necessità di immaginare un nuovo modello universale per la LTC, democratico e accessibile, proprio in linea con gli obiettivi di sostenibilità di cui tutti ci facciamo portatori.

Fig. 2 - L’evoluzione della spesa pubblica per la non autosufficienza

Fonte: Rapporto «Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e sanitario», RGS, luglio 2018. Previsioni reference scenario

Michaela Camilleri, Area Previdenza e Finanza Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

12/6/2019

 
 

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