La cura per la sanità? Riforme (senza debiti e tasse)

Efficientare la spesa pubblica, ridurre i centri decisionali, scegliere i dirigenti per merito, e non per appartenenza politica: COVID-19 ha messo in luce alcuni grandi limiti della sanità italiana ma, numeri alla mano, sarebbe sbagliato cercare la causa di tutti i mali - e la possibile cura - in un insufficiente livello di finanziamento

Alberto Brambilla e Claudio Negro

La pandemia da COVID-19 ha messo in evidenza una serie di carenze sia nella sanità pubblica di base sia in quella integrativa privata, troppo basata sul sistema pubblico per poter funzionare in modo indipendente ed efficace.

La gestione della spesa sanitaria, ormai frazionata tra 21 entità locali, ha mostrato tutti i suoi difetti: basti pensare che nel 1980 avevamo 1 posto letto ogni 94 abitanti circa, mentre nel 2017 ne avevamo 1 ogni 398 abitanti, con carenza di posti di terapia intensiva e di personale sanitario. A loro volta, le regioni parcellizzano la sanità in una quantità di unità operative chiamate ASL in 6 regioni, AUSL in Friuli, ASU, AS e ATS in altre, tra cui la Lombardia: una babele di sigle già indicativa dello stato di funzionamento. E, invece di ragionare su come razionalizzare la spesa, spesso politica e media si concentrano sui presunti tagli alla sanità pubblica, quantificati in 37 miliardi e fatti - dicono - per privilegiare la sanità privata.

Ma è proprio così? Secondo i dati tratti dal bilancio dello Stato e di recente ben analizzati da Luigi Marattin, il SSN costerà 121 miliardi di euro nel 2021. Vent’anni fa, nel 2000, il costo ammontava a circa 66 miliardi per cui l’aumento cumulato di periodo è stato pari all’84,8%, superiore all'inflazione. Anche calcolando l’incremento al netto dell’inflazione cumulata, la spesa sanitaria è aumentata del 34,38%; scende invece, ma di pochi decimali, se la raffrontiamo alla crescita del PIL, soprattutto negli ultimi anni, e all’aumento della spesa pubblica totale che, nel periodo, è sensibilmente aumentata trainata dalla spesa assistenziale.

In dettaglio, tra il 2013 e il 2019 rispetto a un incremento dell’inflazione cumulata di circa il 3,8%, la spesa per  acquistare servizi da privati (spesa per prestazioni acquistate da produttori e sul mercato) è aumentata del solo 3,1%, raggiungendo i circa 40,6 miliardi rispetto ai 39,4 del 2013. La voce comprende 7,56 miliardi per assistenza farmaceutica convenzionata, 6,7 miliardi per assistenza medico generica, 26,33 miliardi per prestazioni sociali in natura di tipo ospedaliera, specialistica, riabilitativa, integrativa e altra assistenza (psichiatria, cure termali, lungodegenza) acquistate da operatori privati accreditati. L’unico vero incremento - pari al 22,2%-  lo si registra per le spese per consumi intermedi, in particolare per i farmaci e gli emoderivati, che pesano per il 32% e assorbono quasi totalmente l’incremento, mentre crescono meno i dispositivi medici che pesano per il 18% e le manutenzioni, gli appalti e il godimento di beni di terzi (affitti). La spesa per il personale, che nel periodo è aumentata del 3,12%, ha ricominciato a salire dal 2018, dopo una riduzione di oltre 43.000 dipendenti rispetto al 2004, riduzione determinata però non da un taglio dell’assistenza ma da un orientamento a privilegiare la sanità ospedaliera rispetto a quella territoriale.

Tabella 1 - La composizione della spesa sanitaria per il periodo 2013-2019

Tabella 1 - La composizione della spesa sanitaria per il periodo 2013-2019

Fonte: Ottavo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

I numeri: il personale degli ospedali passa da 8,4 unità per mille giornate di degenza nel 2004 a 10,7 nel 2017; sul territorio si va invece da 3,2 unità ogni mille abitanti del 2004 al 2,7 del 2017. L’efficienza dell’assistenza ospedaliera è aumentata anche se al prezzo, drammaticamente evidenziato da COVID-19, del taglio dei posti letto e della soppressione di piccoli ospedali nei territori. Scelta corretta dal punto di vista dell'efficienza economica e soprattutto della specializzazione sanitaria, ma che ha fortemente diminuito la sanità territoriale e l’assistenza alla popolazione anziana: la pandemia ha dimostrato l’esigenza di investire sulle strutture territoriali per la prevenzione e il post-ricovero, nonché di ripensare e rafforzare ruolo e funzioni dei medici di base, oggi costretti a fare sempre più gli impiegati e sempre meno i dottori di famiglia e gravati in media da più di 1.500 pazienti a testa, il che impedisce materialmente un'assistenza efficace e determina uno "scarico" di tutte le emergenze sui pronto soccorso e gli ospedali.

Se però si vuole spendere di più per la Sanità, e già lo si sta facendo soprattutto con assunzioni di personale, occorre (oltre a prendere i finanziamenti agevolati del MES) fare qualche considerazione. Nel 2018, il welfare nel suo complesso è costato 462,114 miliardi, che vengono finanziati dai contributi sociali, sufficienti a pagare le pensioni previdenziali, gli ammortizzatori sociali e le prestazioni INAIL, mentre per pagare tutte le pensioni assistenziali, la sanità e l’assistenza sociale a famiglie e individui bisogna attingere a tutte le imposte dirette (245 miliardi). Tanto che, per finanziare il resto della spesa pubblica (istruzione, giustizia, infrastrutture, stipendi ecc.), rimangono le sole imposte indirette, accise, diritti, entrate da lotta all’evasione e imposte minori. E, poiché spesso la quota così ricavata è insufficiente, si fa ricorso a nuovo “debito”.

In tempi di pandemia che vedono il debito pubblico aumentare a livelli insostenibili, servono scelte serie e buona organizzazione a partire da una seria riforma della sanità che, in alcune regioni, si è dimostrata insufficiente. Occorre pensare alla realizzazione di una banca dati del lavoro e dell’assistenza che razionalizzi la spesa, alla promozione di politiche attive per recuperare la povertà, spesso non solo economica ma educativa. Ben vengano nuove assunzioni nel sistema sanitario considerando i mutamenti nella struttura della famiglia sempre più mononucleare e l’invecchiamento della popolazione, ma a condizione che ciò non con nuove e folli tasse come la patrimoniale ma semmai efficientando la spesa pubblica, riducendo i centri decisionali e scegliendo le persone per merito, e non per appartenenza politica. 

 

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

22/12/2020 

L'articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera, L'Economia del 21/12/2020
 
 
 

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