Vivere di più e meglio? Italiani longevi ma poco attenti alla salute

Nel confronto internazionale, l’Italia continua a confermarsi tra i Paesi più longevi in assoluto, ma la speranza di vita in buona salute è peggiore che in altri Paesi europei. Come rilevato dall’ultima indagine Osservasalute, incide sul trend anche una scarsa propensione a rimediare a stili di vista scorretti, come fumo o cattiva alimentazione

Mara Guarino

Un Paese tra i più longevi a livello continentale e mondiale, ma la cui speranza di vita in buona salute risulta ben peggiore che negli altri Paesi europei: anche l’ultimo Rapporto Osservasalute, presentato a Roma lo scorso 15 maggio, conferma una delle grandi contraddizioni della salute italiana che, mentre spicca nel confronto interazionale per l’elevata vita media attesa alla nascita, tende a scendere in graduatoria quando dalla quantità si passa a considerare le qualità degli anni vissuti. Con inevitabili apprensioni di tipo sanitario in senso stretto, ma anche e soprattutto di natura socio-assistenziale: all’aumento dei bisogni della popolazione (sempre più anziana) del Paese non può infatti che accrescersi anche la preoccupazione a proposito della spesa che sarà necessaria per affrontarli in maniera adeguata.

Più che legittimo allora interrogarsi non solo sugli strumenti con cui affrontare efficacemente trend come quello dell’invecchiamento, ma anche sulle ragioni che stanno alla base della “cattiva salute” degli italiani i quali, se da un lato, possono certamente godere dei miglioramenti nell’assistenza sanitaria e dei traguardi della medicina moderna (risulta ridotto di oltre 50%, negli ultimi 30 anni, il tasso standardizzato di mortalità totale del Paese), risultano ancora restii, dall’altro, a modificare abitudini e stili di vita ormai universalmente riconosciuti come dannosi - sia sul breve che sul lungo periodo - per il benessere psico-fisico dell’individuo.

In Italia, sono stati ad esempio registrati nel 2017 circa 10 milioni e 370mila fumatori, vale a dire 6 milioni e 300mila uomini e poco più di 4 milioni e 70mila donne: si tratta cioè del 19,7% della popolazione dai 14 anni in su. Mentre consola parzialmente che il numero di coloro che fumano sia rimasto pressoché stabile dal 2014 e che sia invece in riduzione il numero di sigarette fumate (erano 14,7 nel 2001 e 11,5 nel 2017), fa riflettere -  pur non sorprendendo, trattandosi di una consuetudine che può generare dipendenza - che i cosiddetti fumatori “forti” si concentrino nelle fasce degli over 55 per gli uomini e over 65 per le donne, fasce di età che, per il combinarsi di molteplici fattori di rischio, risultano spesso più esposte al rischio di patologie mortali o invalidanti, come le malattie cardio-vascolari.

Prevalenza di fumatori e numero medio di sigarette fumate al giorno - Rapporto Osservasalute

Non meno rilevanti i dati relativi al consumo di alcol, del quale il Rapporto Osservasalute rileva “l’impatto sanitario e sociale sempre più preoccupante per milioni di individui in tutte le fasce di età”: stimato in 25 miliardi di euro – tra servizi e prestazioni sanitarie, conseguenze di assenteismo, perdita di lavoro e calo di produttività, effetti di comportamenti sociali, etc – il costo di un fenomeno che, in Italia, preoccupa soprattutto quando si guarda ai giovani. Nel 2017, la prevalenza di consumatori a rischio (vale a dire che praticano il binge drinking o che consumano abitualmente alcol in quantità eccedenti le dosi raccomandate) è stata pari al 23,6% per gli uomini e all’8,8% per le donne. Anche in questo caso, i dati sono pressoché stabili rispetto alla precedente rilevazione annuale, ma comunque allarmanti: malgrado le leggi nazionali che vietano vendita e somministrazione di sostanze alcoliche ai minori di 18 anni, la prevalenza di consumatori a rischio tra gli 11 e 17 anni è del 18,4% (21,7% per i giovani uomini e 14,6% per le giovani donne). Tra gli over 65 ancora più marcata la forbice tra i generi: la prevalenza di consumatori anziani a rischio, nel 2017, è pari al 36,4% tra gli uomini e all’8,3% tra le donne.

Prevalenza di consumatori a rischio - Rapporto Osservasalute

Venendo invece al grande tema dell’alimentazione, da rilevare che nel 2017 è risultato in sovrappeso il 35,4% della popolazione di età superiore ai 18 anni: se un 1 italiano su 3 è in sovrappeso, 1 su 10 è addirittura obeso, il che significa che poco meno della metà dei maggiorenni del Paese è in eccesso ponderale, esponendosi così maggiormente al rischio di malattie cardio-vascolari, di diabete di tipo 2 e addirittura di sviluppare alcune forme tumorali. Anche se l’Italia, insieme alla Romania, è in realtà il Paese europeo con la più bassa percentuale di obesi (la media continentale è di 1 individuo su 6), il Rapporto Osservasalute lancia quindi l’allarme, evidenziando l’impatto di sovrappeso e obesità sulla sanità nazionale.

Rilevanti in ogni caso, sul territorio italiano, le differenze innanzitutto geografiche: nel caso sia dell’obesità che del sovrappeso sono in particolare le regioni meridionali a spiccare in negativo. Marcato anche il differenziale per genere: in sovrappeso il 43% degli uomini contro il 28,4% delle donne e obeso l’11,8% degli uomini contro il 9,4% delle donne. Più omogenea invece la distribuzione anagrafica, tanto che per entrambi i generi le percentuali più elevate di persone oltre il proprio peso forma si colloca nella fascia di età 65-74 anni.   

Prevalenza di persone in sovrappeso e obese - Rapporto Osservasalute

E se conforta, almeno in parte, che i dati di lungo periodo evidenzino perlomeno un aumento della propensione alla pratica sportiva in modo continuativo (ancora molto numerosi però i sedentari, più di 22,4 milioni, vale a dire  il 38,1% della popolazione), non va molto meglio se si rivolge lo sguardo a bambini e adolescenti: circa il 24,2% è oltre il proprio peso forma. Confermate peraltro non solo le disparità geografiche (con percentuali particolarmente elevate in Campania, Molise, Calabria e Puglia), ma anche quelle legate al contesto familiare:  prevalenze più elevate sono infatti registrate tra i bambini e i ragazzi che vivono in famiglie con risorse economiche scarse o insufficienti o nelle quali il livello di istruzione dei genitori e, in particolar modo della madre, risulti basso. Rilevazioni che appunto non sorprendono, se non altro perché in linea con l’esito di ricerche precedenti, ma che obbligano a riflettere sul fenomeno della “povertà educativa e sociale” e, dunque, sulla necessità di intervenire attivamente con politiche in grado di promuovere, da un lato, l’educazione alla salute dei più giovani e dei loro familiari e, dall’altro, di disincentivare in modo concreto stili di vita poco sani (ad esempio, applicazione più severa delle normative esistenti, interventi di supporto alle persone con comportamenti più a rischio, politiche di tassazione ad hoc).

E che serva un’intensificazione negli sforzi per promuovere prevenzione e percorsi di presa in carico a 360 gradi dei cittadini/pazienti sembrano certificarlo anche i dati su screening (gratuiti) e diagnosi precoce. Nel triennio 2014-2017, il 54% della popolazione femminile in target ha ad esempio aderito ai programmi organizzati dalle ASL per la mammografia preventiva del tumore della mammella (il 19% delle donne si è invece sottoposto al controllo su iniziativa spontanea), a riprova del fatto che promuovere lo screening con iniziative specifiche e dedicate ne favorisce comunque l’adesione. Cresciuta nell’ultimo decennio anche la sensibilità allo screening per il tumore della cervice uterina (con una quota peraltro rilevante di adesioni spontanee, il 33%) e persino quella per lo screening per il tumore del colon-retto, che pur resta lontana dalle attese. Anche in questo caso, va tuttavia rilevato che lo screening è più frequente nelle persone istruite (il 50% dei laureati contro il 40% delle persone senza titolo di studio o con licenza elementare) e tra le persone con buoni o sufficienti livelli di reddito (il 56% contro il 32% tra chi riferisce di avere difficoltà economiche).

L’efficacia della promozione dello screening cresce all’aumentare del numero di input ricevuti (lettera della ASL, consiglio del medico curante e campagna informativa), i quali non sono ovviamente di per sé garanzia di adesione o di sollecitazione spontanea, ma confermano la centralità di iniziative di educazione sanitaria sia nella promozione della salute pubblica sia, di riflesso, nel mantenimento della sostenibilità – anche economica – dello stesso Servizio Sanitario Nazionale.

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali 

29/5/2019

 
 

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