Flussi migratori, quale sostenibilità per il sistema di protezione sociale?

L’Italia ha bisogno dei migranti per garantire la tenuta del proprio sistema di protezione sociale? Le osservazioni del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali a proposito degli effetti dei flussi migratori sull’occupazione italiana e sul contributo dei cittadini neo- ed extracomunitari al sistema di welfare pubblico

Mara Guarino

Negli ultimi mesi, anche a seguito di alcune proiezioni statistiche INPS, è stata molto dibattuta la tesi secondo la quale, senza una quota crescente di migranti, il sistema di protezione sociale italiano diverrebbe insostenibile. Ma quali sono i reali effetti dei flussi migratori sull’occupazione italiana e sul suo sistema di welfare pubblico? Questa la domanda che si pone l’ultimo approfondimento a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali “I dati sull’immigrazione, verità scientifiche o teoremi?”, muovendo dalla necessità di verificare la correttezza delle argomentazioni oggi più diffuse in materia di immigrazione, a cominciare da quelle – spesso critiche – rivolte alla scelta attuata, a partire dal 2011, di bloccare nuove quote d’ingresso per motivi di lavoro. 

Secondo dati ISTAT elaborati con l’ausilio delle rilevazioni del Ministero dell’Interno sull’andamento dei permessi di soggiorno regolari, la popolazione di origine straniera residente in Italia nel periodo corrispondente al blocco delle quote per motivi di lavoro (2011-2016) è aumentata di circa 1,4 milioni di unità, di fatto 2,2 milioni di persone se si tiene conto del fatto che, nel frattempo, circa 800mila stranieri hanno ottenuto la cittadinanza italiana. Un aumento imputabile, per i cittadini extracomunitari soprattutto a nuove nascite e ricongiunzioni familiari e, viceversa, soprattutto agli effetti della libera circolazione per i neocomunitari che, nel periodo considerato, hanno assorbito il 40% delle attivazioni di nuovi rapporti di lavoro riguardanti cittadini stranieri.

Altrettanto interessanti i dati riguardanti l’andamento della disoccupazione: tra il 2010 e il 2016, a fronte di un crollo del tasso di occupazione degli immigrati dal 67% al 58% (56% per i soli extracomunitari), in relazione a una crescita della popolazione in età di lavoro superiore a quella dell’occupazione, il tasso di disoccupazione specifico è salito fino al 17,9% nel 2013, per attestarsi oggi intorno al 15%, pari a circa 420mila persone in cerca di lavoro.  Al 2017, gli immigrati rappresentano nel Centro-Nord, che pur è l’area del Paese che più li vede partecipi al mercato del lavoro italiano, il 25% del totale delle persone in cerca di impiego. Come ben sottolinea l'approfondimento, gli immigrati hanno certamente rivelato una maggiore reattività agli effetti della crisi, ma ciò è spesso avvenuto al prezzo di una penalizzazione dei salari lordi con un incremento del differenziale dal 30% al 40% rispetto a quelli percepiti degli italiani. E uno dei risultati è che la povertà assoluta e relativa di questi nuclei familiari è aumentata con un’incidenza fino a 8 volte superiore a quella delle famiglie italiane della stessa zona.

Non solo, lo studio evidenzia inoltre come l’uscita dalla crisi abbia cambiato volto al mercato del lavoro italiano delineando un quadro, all’interno del quale, riaprire le quote di ingresso per motivi di lavoro produrrebbe effetti drammatici sia per i lavoratori immigrati già presenti sul territorio sia, in generale, per i lavoratori scarsamente qualificati. Sul "banco degli imputati", anche l’incapacità italiana di investire sulle competenze acquisite nei Paesi d’origine: se è vero che gli immigrati che vengono in Italia sono in gran parte di bassa istruzione e bassa qualificazione professionale, lo è altrettanto che sono comunque spesso occupati come manovalanza a basso prezzo, quando non addirittura in nero, con l’effetto ancor più negativo di abbassare gli standard retributivi e lavorativi per tutti i lavoratori.

Nell’auspicare quindi una politica sull’immigrazione concretamente ponderata sulla base dei fabbisogni della domanda e dell’offerta di lavoro sul territorio nazionale, nell’ambito di intese con i Paesi extracomunitari (e non solo in via di sviluppo) che favoriscano una reciprocità di accesso a nuove opportunità professionali, il documento passa quindi in rassegna il tema del contributo dei migranti alla sostenibilità del welfare italiano, da molti ritenuto ancor più rilevante alla luce delle tendenze demografiche in atto nel Paese. In particolare, muovendo dal presupposto che i lavoratori immigrati - come del resto quelli italiani - stiano offrendo un importante contributo al sistema pensionistico a ripartizione nel sostenere le pensioni vigenti, l’approfondimento analizza le stime INPS che quantificano in un vantaggio di 36,5 miliardi il differenziale storicamente prodotto tra i contributi previdenziali versati dagli immigrati e le prestazioni pensionistiche potenzialmente maturate. Un dato che, secondo Itinerari Previdenziali, si presta però a molteplici obiezioni anche tecniche, sia in merito alla quantificazione delle entrate contributive sia in relazione al calcolo delle future prestazioni.

Ancor prima, tuttavia, lo studio evidenzia come premessa come «in generale, non si comprende per quale motivo alcuni istituti di ricerca insistano nello stilare una sorta di bilancio annuale sui costi/benefici dell’immigrazione come se la popolazione immigrata fosse assimilabile a una categoria economico-produttiva, mentre nella realtà è il frutto di un insieme di fenomeni dalle dinamiche molto specifiche e diversificate al loro interno»."Osservazione" ancora più rilevante nel caso dei contributi previdenziali che, esattamente come nel caso dei lavoratori italiani, andrebbero considerati un debito pensionistico dello Stato nei confronti di chi ha versato, e quindi non ascrivibili a entrate, rendendo quindi di fatto negativo il bilancio tra benefici e costi prodotti dai flussi migratori. In particolare, secondo l’approfondimento, la sola spesa sanitaria (1.870 euro pro capite nel 2016) per i circa 6 milioni di immigrati presenti in Italia sarebbe pari a 11 miliardi, quella scolastica – riferita a oltre 1,1 milioni di stranieri (circa 7.400 euro l’anno pro capite) – aggiungerebbe al totale altri 8 miliardi. Tenendo conto anche dei costi dell’accoglienza, si arriverebbe ad almeno 23 miliardi, cifre importanti anche ipotizzando, da un lato, una sovrastima dei costi della spesa sanitaria per gli immigrati, i quali per vari ordini di ragioni (anche anagrafiche) tendono a rivolgersi al sistema sanitario meno di quanto non facciano gli italiani, e trascurando, dall’altro, ulteriori possibili oneri a carico dello Stato (assistenza sociale, trasporti, etc.).

E, secondo la pubblicazione del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, non potrebbe essere diversamente perché l’immigrazione è un investimento per sua stessa natura e, in quanto tale, innanzitutto comporta dei costi che, soprattutto inizialmente (nei primi 10-15 anni), possono superare le entrate, e che, in secondo luogo, andrebbero calibrati (con l'importante eccezione degli ingressi per motivi umanitari) tenendo conto delle reali esigenze del Paese. Esigenze delle quali però persino buona parte della classe dirigente sembra essere scarsamente consapevole.

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali

7/11/2018

 
 

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