Economia reale (nazionale): ieri, oggi e domani

Se nell'ultimo decennio è stata "sufficiente" una gestione accurata e prudente degli investimenti per garantire sostenibilità, rendimenti e rispetto degli impegni con gli iscritti, agli investitori istituzionali italiani scenari finanziari, geopolitici e socio-economici richiedono oggi un diverso impegno. Una spinta verso strumenti alternativi che può essere una grande occasione per sostenere concretamente l'economia reale del Paese

Gianmaria Fragassi

Secondo i dati pubblicati nell’ultimo Report “Investitori istituzionali italiani: iscritti, risorse e gestori per l’anno 2018”, i numeri relativi agli investimenti in economia reale dicono che in Italia potremmo fare molto di più per sostenere il sistema produttivo e quindi l’economia del Paese.

Gli investimenti cosiddetti in “economia reale”, fatta eccezione per le Fondazioni di origine Bancaria (che, per statuto, si occupano di temi vicini al territorio e che impiegano il 48,60% del loro patrimonio in questo senso) sono ancora modesti. Sono il 16,31% del patrimonio delle Casse privatizzate, che sono abituate a elaborare strategie di investimento mission-related, una sorta di welfare preventivo per gli iscritti per garantire più lavoro, più contributi, più investimenti. Dati molto meno lusinghieri per i fondi pensione, che si attestano al 3,20% (i preesistenti) e al 3,00% (i negoziali), addirittura meno di quanto rilevato nell’indagine di 12 mesi fa. In parte, l’ulteriore discesa è comunque dovuta al fatto che nel 2018 sono andati in scadenza diversi mandati poi riassegnati con strumenti alternativi e quindi non ancora rilevabili dall’analisi dei bilanci per l’esercizio 2018. Questi nuovi investimenti verranno rilevati dall’analisi sui bilanci del 2019 , dunque “peseranno” sul Report del prossimo anno dove ci si aspetta sicuramente un incremento.

Tabella 1 - Gli investimenti in economia reale degli investitori istituzionali 2018

Fonte: Sesto Report sugli investitori istituzionali italiani a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

A ogni modo, gli investitori istituzionali investono ancora poco in economia reale. Se ne parla da tempo, si cercano soluzioni, si studiano nuovi strumenti, si agevolano fiscalmente alcune tipologie di investimento, si creano gruppi di studio o gruppi di investitori per aiutare i soggetti decisori, ma i dati ci dicono che siamo ancora molto lontani da una quantomeno ragionevole allocazione degli asset adeguata alle necessità del Paese. Tralasciando per un momento la drammatica situazione politico-istituzionale italiana, ecco alcune considerazioni sul tema per tentare di scardinare la narrativa liturgica e rappresentare al meglio lo stato di fatto.

 

Il patrimonio cresce, ma non per sempre!

La prima premessa da fare è che qualunque sia la modalità, la direzione e la qualità degli investimenti, i patrimoni degli investitori istituzionali, tendenzialmente, crescono. Tranne per le Fondazioni di origine Bancaria, che per propria natura non raccolgono nuovi versamenti, e per alcuni casi particolari, vedi INPGI, i patrimoni degli investitori istituzionali crescono anno su anno. Per i fondi pensione, oltre alla gestione finanziaria, il patrimonio cresce per via dell’aumento, seppur debole, degli iscritti e, di conseguenza, dei contributi versati. Per le Casse dei Liberi Professionisti, invece, una buona parte dell’incremento del patrimonio va individuato nell’ottimo rapporto tra attivi e pensionati, ancora ampiamente sbilanciato verso i primi (attenzione, non sarà per sempre così!). I patrimoni di questi ultimi accumulano in media 5 miliardi di euro all’anno, crescono meno quelli dei fondi pensione e dell’assistenza sanitaria integrativa (in media, qualche miliardo di euro l’anno).

Negli ultimi 12 anni, nonostante la crisi che ha caratterizzato i mercati finanziari nel 2008, il patrimonio complessivo degli investitori istituzionali, è aumentato dai 95 miliardi di euro del 2007 ai 254,5 miliardi di euro del 2018, con un incremento del 168%. Il patrimonio delle Casse di Previdenza è praticamente raddoppiato negli ultimi 10 anni passando dai 44 miliardi del 2009 agli 83 del 2018. Di più ancora per i fondi pensione negoziali che sono passati negli ultimi 10 anni da 18 a 50 miliardi di euro; i fondi pensione preesistenti da 40 a 60 miliardi di euro. Ragionevolmente, ciò significa che, negli ultimi 10 anni, era sufficiente un’accurata e prudente gestione degli investimenti per garantirsi dei buoni rendimenti, mantenere le promesse agli iscritti, la sostenibilità degli enti e non intaccare i patrimoni. Perché studiare ed elaborare nuove asset allocation verso mercati meno regolamentati, meno conosciuti, con meno track record se si poteva ottenere un buon risultato con un minimo sforzo?

 

Drogati da anni di rendimenti, il vento è cambiato!

La seconda importante premessa da fare prima di analizzare le ragioni che dettano la scarsa attenzione all’economia reale nazionale è legata ai rendimenti: negli ultimi 8/10 anni, al pari della crescita dei patrimoni, è corrisposto un periodo di mercati finanziari con segni quasi sempre positivi. Gli investitori sono stati drogati da anni di rendimenti facilmente raggiungibili, Borse con andamenti positivi hanno portato a scegliere di non modificare le allocazioni e a non intraprendere interessanti operazioni per diversificare e modificare la direzione degli investimenti verso l’alternativo.

Già nel 2018 i rendimenti complessivi per singola tipologia di investitore hanno però subito una rilevante contrazione rispetto agli anni precedenti, attribuibili al generalizzato ribasso dei mercati finanziari. In particolare, per quanto riguarda i fondi pensione, nessun investitore è riuscito a rimanere in territorio positivo e tanto meno a performare meglio dei “rendimenti obiettivo”, con le linee azionarie che hanno segnato perdite importanti. Per il 2019 proseguirà la situazione di basso costo del denaro grazie agli interventi delle banche centrali, con bassi tassi d’interesse del fixed income e con corsi del mercato obbligazionario ai massimi. Sul fronte dei mercati azionari si manterranno scenari volatili per via della crisi commerciale sui dazi e della situazione geopolitica. Battere quindi i rendimenti obiettivo non sarà facile; proprio per questi motivi è in corso un lento processo di variazione dell’asset allocation e delle tipologie di gestione sempre più specializzate e ad alto valore aggiunto, spesso non legate a benchmark ma a obiettivi di rendimento; in questa strategia si inserisce il progressivo aumento degli investimenti in FIA.

 

Più complicato investire in strumenti alternativi

Un’ulteriore considerazione sul tema: per investire in economia reale bisogna ricorrere agli strumenti cosiddetti alternativi. Questi strumenti sono più complessi di un mercato obbligazionario o azionario tradizionale, sono meno regolamentati, le informazioni più difficilmente reperibili, i track record più brevi; come se non fosse sufficiente, sono mediamente anche più cari e più rischiosi.

Eppure qualcosa si muove. Gli operatori che si stanno occupando di alternativi sono molti, i consigli di amministrazione e le strutture in generale (in particolare quelle dei fondi pensione, spesso molto snelle e poco strutturate) stanno affrontando processi che li aiuteranno ad avvicinarsi e a familiarizzare con questi strumenti alla ricerca di nuovi extra-rendimenti. Ci sono altri motivi, minori ma non meno impattanti, di cui quasi mai si parla: spessissimo gli iscritti ai fondi pensione, anche se in età giovane, si posizionano su comparti molto prudenti che non prevedono l’uso di questo tipo di strumenti per politiche di investimento. Altro interessante motivo va ricercato presso la commissione di vigilanza che non aiuta queste forme di investimento: spesso le regole di reportistica della commissione sono molto complicate e time-consuming scoraggiando a intraprendere queste strade.

Come descritto, fino a ieri non vi era la necessità né l’urgenza di investire in strumenti alternativi; oggi, per i motivi elencati e per un bisogno chiaro del Paese la rotta è tracciata e si potrà solo guardare e soprattutto andare avanti su questa strada. Per fortuna, qualche conferma arriva anche da fonti estere: secondo l’indagine Mercer 2019, gli investitori istituzionali italiani (Fondi Pensione, Fondazioni e Casse di Previdenza) hanno un portafoglio ben diversificato rispetto ai cugini europei e dimostrano una maggiore attenzione a mercati privati, con più del 64% che punta sui premi al rischio dei private asset, guardando sia al private equity sia al private debt (l’indagine Mercer ha coinvolto 876 portafogli istituzionali coprendo 12 Paesi europei).

Per continuare l’analisi sulle motivazioni tecniche che ancora rallentano gli investimenti cosiddetti in economia reale, bisogna dunque focalizzarsi sull’importanza della formazione degli organi decisionali e delle strutture interne.

È importante conoscere i mercati, i prodotti e gli operatori per restare al passo con i tempi e non farsi trovare impreparati. È necessario individuare forme di collaborazione e di aggregazione per tutte le fasi del processo decisionale di investimento, da quelle propedeutiche alla realizzazione dell’investimento - analisi e selezione dei provider a quelle di realizzazione degli investimenti (oppure co-investimenti) al fine di sfruttare economie di scala e ridurre i rischi.

Semplificazione della normativa (limiti quantitativi), dei processi necessari per la realizzazione degli investimenti (modifica statuto) e di quelli per autorizzazioni e reportistica  richiesti dall’autorità di vigilanza sono temi che non possono non essere menzionati, ma che vivono da anni del riflesso delle istituzioni e dei regolatori che purtroppo spesso cambiano. Le considerazioni e le premesse fatte raccontano di un’occasione importante per gli investitori istituzionali domestici per individuare oggi soluzioni innovative - ottenere rendimenti aggiuntivi attraverso l’investimento in strumenti alternativi - contribuendo al sostegno dell’economia reale nazionale.

Gianmaria Fragassi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

26/9/2019

 
 

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