Nessuna rivoluzione agile in corso: lo smart working convince solo a metà

Lo smart working ha indubbiamente un potenziale rivoluzionario per il mercato del lavoro italiano, al momento però ancora inespresso, tra limiti legislativi e scetticismo delle piccole e medie imprese

Mara Guarino

A un anno dall’entrata in vigore della legge sul lavoro agile, losmart working ha davvero contribuito a “favorire la flessibilità di tempi e luoghi nel lavoro subordinato”? Gli ultimi dati diffusi dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano aiutano a fare chiarezza, dipingendo in realtà un quadro in chiaroscuro: mentre nelle grandi aziende si diffondono a velocità sostenuta i modelli di lavoro flessibile, nelle PMI non si registrano cambiamenti evidenti rispetto al 2017 e, nel complesso, la diffusione di soluzioni agili stenta a decollare. 

Questi i numeri del fenomeno nel dettaglio: gli smart worker italiani sono ormai almeno 480.000, pari a circa il 12,6% del totale di occupati che, per tipologia di lavoro, potrebbero effettivamente fare smart working. Del campione intervistato dal Politecnico di Milano, oltre una grande impresa su due (il 56%) ha avviato progetti strutturati, con un incremento del 20% rispetto allo scorso anno; se si estende però lo sguardo anche alle imprese che hanno intenzione di adottare soluzioni di lavoro agile nei prossimi mesi o che già lo fanno in via sperimentale, si arriva alla significativa quota di almeno due grandi aziende su tre impegnate nel lavoro agile. Tra le piccole e medie imprese, stabili invece i livelli di diffusione rispetto al 2017: al momento, solo l’8% del campione ha progetti strutturati, il 16% ha avviato sperimentazioni informali mentre, dato ancora più rilevante, il 38% delle PMI si dichiara del tutto disinteressato all’adozione del lavoro smart.

Date le premesse, sembrerebbe sin troppo facile (e semplicistico) individuare le ragioni di questa doppia velocità proprio nella legge 81/2017. In realtà, come evidenzia lo stesso Osservatorio, la norma ha funzionato da stimolo più per il pubblico che per il settore privato nella sua generalità, complice anche la direttiva n.3 del 2017 in materia di lavoro agile  che, nell’alveo della cosiddetta “riforma Madia” della pubblica amministrazione, impone - o , forse, sarebbe più opportuno dire imporrebbe - a tutti gli enti pubblici di concedere ad almeno il 10% dei propri dipendenti l’accesso a soluzioni lavorative flessibili (tra cui, appunto, lo stesso smart working)Benché l’obiettivo fissato dalla direttiva appaia per il momento decisamente lontano, la gran parte di quanti hanno avviato progetti strutturati riconosce di averlo fatto proprio a seguito delle novità legislative introdotte nel 2017, vero anno di svolta per lo smart working italiano. A prescindere dalle dimensioni, la situazione è invece molto differente tra le imprese private: gran parte delle grandi aziende e delle PMI che si avvalgono di lavoro agile aveva già pensato di farvi ricorso prima della legge 81/2017, solo il 17% ha trovato slancio proprio in virtù o a seguito della nuova legislazione. 

Pur con tutte le sue criticità, è del resto indubbio che la legge 81/2017 abbia avuto il grande merito di dare finalmente anche in Italia un’identità  - anche giuridica - a uno strumento ormai in via di diffusione e troppo spesso impropriamente confuso o assimilato al telelavoro, dal quale però differisce per una minore rigidità nell’organizzazione delle modalità di lavoro e, di conseguenza, anche per un potenziale più innovativo: per il dipendente, cui offre la possibilità di conciliare con maggiore facilità i tempi di lavoro e vita privata (il che lo rende una soluzione particolarmente appetibile per le lavoratrici madri, ma anche per i lavoratori più prossimi all’età di pensionamento); per il datore di lavoro, che ne può trarre benefici in termini di attrattività e retention, produttività (basti pensare alla comprovata riduzione del tasso di assenteismo) e riduzione dei costi, ad esempio di quelli di gestione degli spazi fisici dell’azienda. 

Ci sono però delle ragioni strutturali che, senza ombra di dubbio, favoriscono le grandi aziende le quali, del resto, più agevolmente possono beneficiare delle risorse economiche, umane, tecnologiche e di pianificazione necessarie a mettere in atto la trasformazione organizzativa alla base dell’attuazione dello smart working. Si è ad esempio a lungo parlato dei limiti del lavoro agile sul versante della sicurezza ma, a fronte dei progressi fatti registrare dalla circolare INAIL del 2 novembre 2017, sono molte le realtà che lamentano difficoltà organizzative dinanzi ai necessari adempimenti formali, individuando nei processi di trasmissione delle comunicazioni relative agli accordi sul lavoro agile un elemento ulteriore di complicazione. 

Il fenomeno resta allora di nicchia, in particolare nelle aziende di dimensioni contenute, anche per ragioni culturali: lo stesso Osservatorio Smart Working registra tra le PMI una latente disinformazione sul tema, mentre per quanto riguarda le grandi aziende sarà forse solo il tempo a dire se si è dinanzi a un’autentica rivoluzione o, piuttosto, a un “trend” del quale neppure le realtà più strutturate hanno pienamente colto dinamiche e impatti. Non si tratta d’altra parte solo di una maggiore flessibilità oraria o “geografica”, ma di un cambiamento più radicato e radicale nell’organizzazione del lavoro, che attribuisce al dipendente maggiore autonomia e flessibilità, richiedendogli però come contropartita una maggiore responsabilizzazione e di una più spiccata propensione a valutarne le prestazioni lavorative in termini di risultati ottenuti. E i possibili risvolti negativi di questa situazione non mancano, con gli smart worker che non di rado lamentano ad esempio senso di isolamento rispetto ai colleghi o sintomi di stress legati sia all’eccessivo prolungamento degli orari di lavoro sia all’uso intensificato di dispositivi tecnologici. E, non è un caso, del resto, che l’effettiva applicazione del diritto alla disconnessione sia oggi considerata la vera partita da giocare in materia di lavoro agile: l’utilizzo prevalente di tecnologie informative, da un lato, e la definizione delle attività professionali secondo la logica dell’obiettivo, dall’altro, può generare infatti un autentico paradosso, quello per cui una strategia pensata anche per favorire il work-life balance si traduca, nella pratica e in assenza di adeguati accorgimenti, in una reperibilità costante e controproducente. 

Il potenziale innovativo dello smart working non è insomma in discussione, ma se l’intenzione è quella di portare davvero a compimento la “rivoluzione agile” un ulteriore sforzo è richiesto tanto ai policy maker quanto a imprese e pubbliche amministrazione, affinché la spinta al cambiamento non finisca col l’esaurirsi prima ancora di ottenere gli esiti auspicati. 

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali 

28/12/2018

 
 

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