Welfare aziendale, avanti adagio

Nonostante gli innegabili risultati positivi, le misure di welfare aziendale continuano a essere poco diffuse rispetto al potenziale pubblico di riferimento: una recente indagine Nomisma-CGIL aiuta allora a focalizzare gli aspetti su cui è possibile fare passi avanti

Giovanni Gazzoli

Dopo una stagione caratterizzata da interventi positivi nel campo del welfare aziendale, la Legge di Bilancio per l’anno 2020 ha fatto registrare una frenata in merito. Se pensiamo che la discussione maggiormente rilevante in tal senso è stata quella relativa alla tassazione sui veicoli concessi in uso promiscuo ai dipendenti e amministratori di società, è evidente come si possa parlare di occasione persa. Eppure, purtroppo, è questo il secondo anno consecutivo in cui si registra tale rallentamento, dopo che – come detto – si veniva da una serie favorevole di ben tre Leggi di Bilancio.

Eppure, i punti su cui lavorare non mancano, a partire dall’esigenza di semplificazione delle procedure di accesso al welfare aziendale: questo vale in particolar modo per le piccole e medie imprese, soggetti che, anche per la bassa presenza di rappresentazione sindacale nonché della scarsa adesione ad associazioni di categoria, praticano il welfare aziendale molto meno di quanto non facciano le grandi aziende, ma che allo stesso tempo rappresentano la spina dorsale del tessuto imprenditoriale italiano. Anche se va registrato, come esposto qualche mese fa dall’ultimo Rapporto Welfare Index PMI, che anche tra le PMI è aumentata la sensibilità verso questa misura, tanto che le imprese con meno di 10 addetti ad utilizzarla sono passate dal 6,8% del 2017 al 12,2%, quelle tra 10 e 50 dall’11% al 24,8% e quelle tra 51 e 250 addetti dal 20,8% del 2016 al 45,3%.

Ma un altro aspetto su cui è possibile fare passi avanti è quello dell’informazione e della consapevolezza: è questo uno dei risultati del rapporto “La fruizione dei servizi di welfare aziendale”, prima indagine indipendente sulla valutazione e l’utilizzo dei servizi di welfare aziendale da parte dei lavoratori, realizzata da Nomisma in collaborazione con CGIL. Infatti la ricerca, effettuata su un campione di 70 aziende con il coinvolgimento di quasi duemila lavoratori tra impiegati, operai e quadri, mostra che solo il 35% degli intervistati dichiara di conoscere la materia in modo abbastanza dettagliato, mentre il 45% afferma di essere informato soltanto a grandi linee e il 9% di non essere affatto a conoscenza delle misure destinate ad aumentare il benessere dei dipendenti.

La mancata informazione porta anche al mancato sfruttamento di opportunità: ben il 45% degli intervistati non fruisce delle prestazioni di welfare aziendale disponibili. E non è solo un discorso di quantità dell’informazione, ma anche di qualità, se si registra che “all’aumentare dell’inquadramento lavorativo e del titolo di studio aumenta anche la fruizione (per i quadri 66% e per chi possiede una laurea 62%)”, o che le donne e le famiglie con figli sono i soggetti che ne usufruiscono di più (rispettivamente 61% e 59%).

La mancanza di un'adeguata informazione non può dunque essere l’unico motivo per cui i dipendenti non ricorrono al welfare aziendale e, soprattutto, non deve diventare una foglia di fico per limitarsi a campagne informative e “di marketing”. Ciò è dimostrato dal fatto che il 39% del campione non vede i suoi bisogni intercettati da questi servizi e che il 38% preferirebbe avere somme in denaro anche al netto della maggiore tassazione. È utile allora concentrarsi su cosa viene apprezzato maggiormente: la mobilità casa-lavoro, i mutui, i prestiti e i servizi relativi a educazione e istruzione. Anche perché i risultati sono innegabili: ben il 70% degli utilizzatori riporta benefici economici e il 43% di benessere generale, mentre il 31% ha migliorato il proprio rapporto con l’azienda e il 27% ha aumentato il senso di appartenenza.

Telegraficamente: buoni risultati, ma si potrebbe fare di più. Soprattutto in termini di comprensione delle necessità reali dei dipendenti. La ricerca, dunque, intercetta il tema del coinvolgimento degli stessi nella delineazione di queste politiche: strumento efficace anche per contrastare il rischio che le aziende usino le misure di welfare aziendale meramente per fini di beneficio fiscale, piuttosto che di reale supporto ai propri dipendenti e della concilazione delle loro vite professionali e personali. Pertanto, conclude l’indagine, “è a tal fine indispensabile che i piani di welfare siano costruiti sulle reali esigenze dei lavoratori e dell’impresa e non si limitino a un elenco di interventi standardizzati e molto generici, come spesso accade allo stato attuale”.

Questo per far sì che la misura sia sempre più adeguata a rispondere a una dinamica ormai evidente, ossia il cambiamento della natura del rapporto di lavoro in tutto il mondo occidentale. Una “rivoluzione in atto – come affermava il Presidente di AIWA – in cui la retribuzione smette di essere soltanto monetaria e incomincia a ricomprendere, per volontà congiunta dell’impresa e del lavoratore, anche beni e servizi”.

Giovanni Gazzoli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

4/2/2020

 
 

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