Obbligatorietà di adesione alla previdenza complementare in Inghilterra

Nel nostro paese è sempre di attualità la ricerca delle azioni da intraprendere per lo sviluppo e il rilancio della previdenza integrativa ...

Nel nostro paese è sempre di attualità la ricerca delle azioni da intraprendere per lo sviluppo e il rilancio della previdenza integrativa. Una delle idee ricorrenti è quella di renderne obbligatoria l’adesione. In Inghilterra due leggi  del 2007 e del 2008 hanno imposto a tutti i datori di lavoro del settore privato una serie di obblighi in relazione alla previdenza complementare (auto-enrolment).

A partire dal 2012 -per le aziende più grandi- fino al 2018 -per le più piccole- vi è l’obbligo di iscrivere i  propri dipendenti ad un fondo pensione purché abbiano un reddito di almeno 9.500 Sterline annue e siano di età compresa fra i 22 anni e l’età del pensionamento.

Fondo pensione che deve avere anche un comparto di default in cui far confluire gli iscritti che non esprimono  scelte su come investire la propria posizione.

Obiettivo dei provvedimenti è quello di assicurare ai lavoratori una pensione -pubblica + privata- adeguata che eviti, o almeno riduca, futuri interventi finanziari da parte dello stato -e quindi in ultima analisi dei contribuenti- a sostegno dei pensionati.

Al dipendente è concessa la possibilità di optare per l’uscita dal fondo cui è stato iscritto, ma, in questo caso, il datore di lavoro dovrà reiscriverlo nuovamente dopo tre anni.

Per contro, i gestori dei fondi pensione possono rifiutare l’adesione di una azienda o l’iscrizione di parte dei dipendenti della stessa; unica eccezione è il fondo pubblico NEST (National Employement Saving Trust) che deve accettare tutte le richieste di adesione.

Il successo di questi provvedimenti si fonda principalmente sullo scarso ricorso da parte  dei dipendenti all’opzione di uscita; fenomeno che, al momento, per le grandi aziende (le prime a partire dal 2012) si aggira intorno ad un 8-15%.

Va da sé che l’ “auto-enrolment” sta cambiando le caratteristiche del mercato non dovendosi  più “vendere” i prodotti della previdenza complementare né ai dipendenti  - che possono solo richiedere l’uscita- né alle aziende obbligate ad aderire per legge un fondo pensione.

Il  Pensions Institute[1] della Cass Business School - City University di Londra, segue attentamente l’evolversi dell’auto-enrolment e, dopo una prima ricerca -”Caveat Venditor” dell’ottobre 2012- ne  ha pubblicato una nuova “VfM:  Assessing value for money in defined contribution default funds” (VfM: Valutare il valore della prestazione nel comparto di default di un fondo pensione a contribuzione definita).

L’istituto ha svolto una indagine, durata un anno, fra i vari  operatori della previdenza complementare dalla quale ha tratto l ‘opinione che il punto chiave per il successo risieda nel “default fund” ovvero il comparto residuale predisposto per i dipendenti che non effettueranno alcuna scelta di investimento.

Convinzione tratta dal non eccessivo ricorso all’opzione di uscita da parte dei dipendenti e dalla stima che il numero di coloro che non effettueranno scelte circa gli investimenti sarà complessivamente tra il 90 ed il 97%.

Inoltre, nel definire il VfM si è ritenuto  che il parametro più adatto sia  il tasso di sostituzione ovvero la percentuale delle rendite ricevute (pubblica più privata) rispetto all’ultimo stipendio ricevuto.

Per poterlo valutare e quantificare come obiettivo  del “default fund”, la ricerca ha esaminato 25 fra fondi pensione e prodotti assicurativi del periodo fra il 1990 ed il 2013 ricavandone  un modello di simulazione  che stima il rendimento al netto dei costi.

Nel predisporre il modello si è rilevato che spesso, contrariamente a quanto si crede, i maggiori oneri non sono ricompensati da rendimenti più elevati.

Infatti, a parità di contribuzioni, è vero che spese molto basse non necessariamente portano al miglior risultato, ma differenze nei costi -diretti ed impliciti- danno luogo nell’arco della vita lavorativa a grandi differenze sulla prestazione finale.

La ricerca trae, quindi, la conclusione che i fattori più rilevanti per la prestazione finale tendono ad essere i costi e meno le strategie di investimento.

Fatte queste premesse, i risultati principali della ricerca, più in dettaglio, si possono così evidenziare:

  • Mercato: si prevede che entro il 2030 aumenti di 6 volte  rispetto al 2012 (dai 325 mldi di Euro ai 2.000 mldi di Euro). La concorrenza, tuutavia, porterà al  consolidamento di soli 5 o 6 grossi fondi multi-aziendali  verso cui i datori di lavoro tenderanno a  far confluire il proprio fondo aziendale “a benefici definiti” in modo da poterlo chiudere liberando il bilancio delle annesse passività per impegni futuri;
  • Rigidità dei contratti in essere: con l’attuale legislazione è difficile facilitare un massiccio passaggio dai vecchi fondi costosi ai nuovi più economici e meglio strutturati nonostante questo sia essenziale per garantire agli iscritti un adeguato VfM per la rimanente parte della vita lavorativa.
  • Passività per i Iavoratori: gli iscritti, che in buona sostanza sostengono le spese, hanno scarse possibilità di intervento dato che non possono scegliere nè il fondo cui aderire  né influenzare i costi.

A seguito di quanto rilevato, la ricerca conclude formulando una serie di raccomandazioni al governo ed alle autorità di controllo:

Definire il VfM per gli iscritti: indicare la miglior combinazione di costi e di strategie di investimento sia per la fase di accumulo che per quella di erogazione  della prestazione. Questo prevede un TER di circa lo 0,5% nella fase di accumulo, un adeguato sistema di gestione del patrimonio con una revisione periodica delle strategie di investimento, una governance indipendente ed un’ erogazione della rendita con costi contenuti;

Definire l’obiettivo degli iscritti: il più corretto è il tasso di sostituzione ovvero il rapporto fra la pensione e l’ultimo stipendio; infatti, un obiettivo espresso dall’ammontare accantonato all’atto del pensionamento non tiene conto dei costi e rischi della conversione in rendita (volatilità dei tassi , longevity risk);

Definire tutti i costi con obbligo di renderli pubblici: tutti i costi devono essere dichiarati e comunicati sia agli amministratori  sia alle autorità di controllo in modo da poterli confrontare e valutare in base al VfM. Tutti i costi inoltre dovrebbero essere pubblicati su un sito web centrale per un controllo pubblico ed indipendente;

Favorire il passaggio dai vecchi fondi ai nuovi: una revisione delle leggi sui contratti in essere per permettere di attivare una massiccia migrazione ai nuovi fondi meno costosi e più strutturati. Il tutto deve riguardare anche i piani individuali stipulati quando si lascia l’impiego.

Riformare la regolamentazione: occorre superare l’attuale sistema duale per il quale “The Pensions Regulator” controlla i fondi pensioni collettivi, mentre la Financial Conduct Authority controlla i contratti privati.

Quali conclusioni si possono trarre da questa ricerca?

Una forma di iscrizione obbligatoria alla previdenza complementare con possibilità di poterne uscire da parte del dipendente sembra poter veramente farla decollare e quindi contribuire significativamente a garantire una pensione adeguata a gran parte dei lavoratori.

Inoltre, date la grosse cifre in campo, non è da trascurare il possibile aiuto all’economia del paese tramite finanziamenti alle aziende soprattutto quelle medio/piccole.

Come sempre però, occorre fare attenzione per impedire speculazioni selvagge e proteggere i più deboli con un contorno normativo chiaro e preciso.

E qui, se diamo uno sguardo a casa nostra, scopriamo che le raccomandazioni rivolte alle autorità inglesi sono già state in gran parte recepite dai nostri ordinamenti; ricordiamo innanzitutto la legislazione primaria (DM 252/05) e l’unica Autorità di vigilanza (COVIP).

Le prescrizioni del decreto e le deliberazioni della Commissione determinano un insieme significativo di garanzie; ricordiamo tra le altre  l’Indicatore Sintetico dei Costi pubblico, il Documento sulla Politica di Investimento, la Nota Informativa, la Comunicazione periodica annuale con la stima della pensione complementare tramite il progetto esemplificativo personalizzato, la pubblicità delle gare per le assegnazioni dei mandati ai vari fornitori.

Per una volta almeno, penso, possiamo ritenerci orgogliosi di essere all’avanguardia in un settore del welfare e di poter essere un po’ di esempio al resto dell’Europa.

Per completare il nostro sistema possiamo ipotizzare  un “auto-enrolment” anche da noi?

Considerata l’attuale situazione economica probabilmente no nella versione inglese dato che l’iscrizione obbligatoria comporta anche il versamento di un contributo da parte dell’azienda e del lavoratore. Rimane però il TFR, istituto non previsto in Gran Bretagna,  e qui possiamo pensare di ripetere periodicamente  -ogni 3 – 5 anni- la richiesta ai lavoratori non iscritti a fondi pensione di scelta della destinazione del TFR con la clausola del silenzio assenso.

Ulteriori iniziative potrebbero poi interessare i rinnovi contrattuali considerato il favore fiscale riservato alle contribuzioni alla previdenza complementare.

[1] Per chi volesse approfondire e consultare questa e  le altre pubblicazioni dell’istituto: www.pensions-Institute.org

16/05/2014

Paolo Novati

 

 

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